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Non ci siamo mai guardati così tanto nelle superfici riflettenti come negli ultimi anni. E quello che una volta era il «servo delle nostre brame» oggi è diventato il collettore di ansie e pressioni sociali. Riguarda soprattutto i giovani, ma gli adulti non possono ignorarlo. La soluzione? È (anche) nelle mani di chi ha il compito di educare
a poetessa polacca Wislawa Szymborska ha scritto: «Ogni specchio ha per me notizie differenti». Di fronte a ogni specchio, infatti, emergono diverse parti di sé, e anche di fronte allo stesso specchio — come a ogni fotografia — ci si può scoprire a distanza di anni un’altra persona. È anche per questa ragione che è recentemente diventato virale in tutto il mondo l’hashtag #teenagedirtbag, che soltanto su TikTok ha superato il miliardo e mezzo di condivisioni: si tratta dell’invito a mostrare le foto di quando si era adolescenti strani, alternativi e perdenti. Perlomeno le foto superstiti, quelle che non sono state strappate o buttate via in un impeto di disgusto. Ispirato all’omonima canzone del 2000 dei Wheatus, gruppo pop punk statunitense, questo trend ha spinto le persone ad attingere a un passato fatto di imbarazzi, vergogne e sofferenze adolescenziali, facendo leva sul fatto che in quegli anni chiunque si vede attraverso una lente deformante. Adolescente, infatti, è letteralmente il crescente, da ad-oleo , ossia chi si trova all’interno di un processo di trasformazione radicale, in quella «mostruosità» fatta di corpi, voci, odori e attitudini in mutazione radicale. Eppure, riguardandosi a distanza di anni emerge fortissima la tenerezza e una semplicissima normalità, che era pressoché impossibile percepire a quel tempo. È finalmente possibile osservare in quelle foto una persona che non aveva davvero niente che non andasse, e che stava solo cercando il proprio stile e il proprio posto nel mondo. Perché ci si vedeva così male, invece? Perché ci si sentiva così sbagliati? Perché nella società contemporanea si viene costantemente spinti a misurarsi, osservarsi, confrontarsi e conformarsi, e lo specchio smette di riflettere semplicemente la nostra immagine e di essere il luogo nel quale conoscersi e riconoscersi, ma diventa il terreno del confronto implacabile tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere. Del resto, non ci siamo mai guardati così tanto nelle superfici riflettenti come negli ultimi anni. Sebbene siano esistiti specchi già tra gli antichi Egizi, tra il 2620 a.C. e il 2500 a.C., è stato solo con la nascita della società di massa che lo specchio è divenuto un oggetto di uso comune per controllare se il proprio aspetto fosse in ordine. Oggi gli specchi sono anche gli schermi e le telecamere che catturano la nostra immagine ogni giorno, attraverso cui comunichiamo per lavoro o nel tempo libero, che ci costringono a guardare costantemente il nostro volto riflesso, e per questa ragione rappresentano un luogo di biasimo e validazione sociale. Lo specchio non è servo delle nostre brame, ma collettore delle nostre paure. È chiaro che questo tocca principalmente i giovani che stanno ancora costruendo la propria identità personale, ma sarebbe ipocrita tirarsene fuori in quanto adulti. L’immagine allo specchio è qualcosa con cui ci confrontiamo in continuazione, perché ci mostra il modo in cui verremo visti dall’esterno. Questo continuo guardarsi dal di fuori è ciò che in neuropsicologia si chiama visione allocentrica del corpo: ci si sente oggettivati, e ciò porta a associare il proprio valore come esseri umani alla propria immagine, ovvero a quanto questa rispetti gli standard. Si tratta di una sorveglianza del corpo che, secondo gli studi, si riduce con l’aumento dell’età, eppure occupa talmente tanto spazio nella vita personale da condizionare pesantemente tutta l’esistenza, le scelte compiute e quelle mancate. E non vale più solo per le donne, perché ogni persona — uomini compresi — sente addosso uno sguardo e una pressione sociale che influenzano ogni esperienza. Secondo i ricercatori, il modo più efficace per uscire da questa ossessione è la creazione attiva di un’immagine corporea positiva di sé, che consiste nell’imparare a ignorare i segnali nocivi, diminuendo tutte le energie spese per l’investimento corporeo. Si tratta di coltivare l’autocompassione, liberandosi dai pensieri legati all’aspetto. La soluzione, però, non può essere solo a carico della singola persona, ma deve venire prima di tutto da chi ha il potere di diffondere messaggi e di educare i più giovani a un’immagine positiva di sé, dando spazio a tutti gli interessi della vita che danno senso e che permettono di coltivare qualcosa di diverso dal proprio aspetto. Se #teenagedirtbag sta mostrando — come altri fenomeni social — quanto sia difficile diventare sé stessi nella società contemporanea, ci dice anche che possiamo imparare a provare tenerezza non solo per quel che siamo stati, ma anche — e soprattutto — per quel che siamo.
Maura Gancitano è filosofa, scrittrice e fondatrice di Tlon. Il suo ultimo libro è «Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza» (Einaudi 2022). Con Andrea Colamedici è l’ideatrice della Festa della Filosofia e di ilpod, il primo Podcast Awards italiano
Sopra, ragazze manifestano il giorno dopo l’attentato al Bataclan, Parigi, Francia, 2015 (foto di Neige De Benedetti)
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